minima&moralia è tra i partner del concorso Scrivere di cinema – Premio Alberto Farassino per giovani aspiranti critici cinematografici: ospitiamo la rubrica di cinema a cura dei vincitori dell’edizione 2016 e vi segnaliamo il bando dell’edizione 2017.
di Jacopo Barbero
Tra i vari “Mister” de Le iene di Tarantino due avevano un ruolo marginale: erano Mr. Brown, interpretato da Tarantino stesso, e Mr. Blue, interpretato da tale Edward Bunker, un ex criminale poi divenuto un noto scrittore di libri noir. Cane mangia cane, edito per la prima volta nel 1995, è forse la sua opera più nota e chi meglio di Paul Schrader, re indiscusso della Nuova Hollywood, sceneggiatore di alcuni tra i massimi capolavori di Scorsese, poteva aspirare a trasporre il libro di Bunker?
La brutale vicenda è quella di tre ex galeotti, Troy (Cage), Mad Dog (Dafoe) e Diesel (Cook), che tentano di fare il colpo della vita rapendo un bambino. La storia dunque, tutto sommato, è qualcosa di già visto, da Fargo dei Coen al sottovalutato Pain & Gain di Michael Bay: la cosa straordinaria è il modo in cui Schrader mette in scena la sceneggiatura di Matthew Wilder. Il film si apre con una sequenza che entra di diritto tra le più belle dell’anno: un raccapricciante quadretto famigliare di violenza, girato con stile lisergico, con un Dafoe straordinario che segna subito il tono della pellicola.
Quella rappresentata da Schrader è un’America cicciona, drogata, che si dimena, in preda alla spasmodica ansia di aver perso per sempre la propria innocenza. Un po’ come i nostri tre protagonisti, personaggi in cerca di una redenzione impossibile nell’eterna tragicommedia umana, che rappresentano tre facce della stessa medaglia: Troy è convinto di possedere una sorta di moralità (“Io volevo la giustizia” dice), Mad Dog è l’anima smarrita e fino alla fine, anche quando le circostanze si fanno insostenibili, crede nel futuro, infine Diesel parrebbe essere il più umano e sensato del trio, ma vive un delirio di onnipotenza che lo condurrà alla sconfitta.
Cane mangia cane è il ritratto di un’umanità disgraziata e disperata, girato da un grande del cinema, che impregna la sua pellicola di rimandi allo Scorsese di qualche decennio fa e soprattutto all’opera di David Lynch (in questo senso il film esce in un periodo più che adatto): le macchine che avanzano di notte sulle strade (perdute?), le luci al neon, il dialogo inconcludente, la satira… Eppure in tutto questo, a tratti, si possono cogliere degli attimi di bellezza, di umanità: uno sguardo, un gesto, un movimento della bocca.
L’uomo è una bestia secondo Schrader, ma vi sono dei momenti in cui assume parvenze umane: il dialogo tra Diesel e la giovane ragazza che gli parla di Elliott Smith, le ultime parole di Mad Dog, pronunciate in mezzo ai cadaveri, tutto ciò che resta della sua esistenza, la chiusa finale, in cui Troy, con sagge parole, va incontro al proprio destino. Per dirla con Sorrentino:“Finisce sempre così, con la morte. Prima però c’è stata la vita. […] Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile.” Non è un caso che l’immagine che più rimane impressa nella testa dello spettatore sia quella dei tre amici che si azzuffano amichevolmente, balzando mezzi nudi sul letto, leggiadri, angeli caduti, invischiati nella putredine del mondo e della loro vita.
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